mercoledì 11 dicembre 2013

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Vi informiamo che saremo chiusi per le Festività Natalizie
dal 23 dicembre 2013 al 6 gennaio 2014 compreso.

A Voi tutti Auguriamo un Sereno Natale
Felicissimo Anno Nuovo.

Staff AssoEndometriosi 

Il Ministro Lorenzin risponde al coro delle associazioni. Ora però i fatti!


A distanza di un mese dalla consegna a mano della richiesta di una legge per l’endometriosi, il Ministro Lorenzin divulga il seguente comunicato stampa, reperibile al link http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_4_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=salastampa&p=comunicatistampa&id=4142

Nella lettura del comunicato n. 239 si evince un'esplicita risposta ai due punti citati nel documento presentato:
1° punto - Il Comitato chiedeva la firma del decreto attuativo delle nuove tabelle INPS per l'ottenimento dell'invalidità civile.
2° punto - Il Comitato chiedeva l'istituzione del Registro Nazionale dell'Endometriosi e di una legge nazionale a tutela delle donne affette da endometriosi, per meglio caratterizzare tale malattia dal punto di vista fisiopatologico ed epidemiologico e per permettere di organizzare strategie appropriate e minimizzare gli sprechi, primo necessario passo per la tutela della salute delle donne che nascono con questa terribile malattia cronica.

Adesso, caro Ministro, auspichiamo che l’attenta valutazione per il riconoscimento degli effetti invalidanti di tale patologia non duri troppo tempo e che il suo appello affinché in tutte le Regioni sia tenuta presente la necessità di realizzare appositi percorsi, diventi un sollecito ufficiale a tutti i Presidenti di Regione ed Assessori competenti affinchè siano stilate leggi ad hoc e stanziati i soldi necessari per la costituzione di registri della patologia per gli accertamenti diagnostici ed i trattamenti terapeutici . 
Fonte: Agor@magazine

venerdì 29 novembre 2013

Psichiatra, psicologo o neurologo?

A chi rivolgersi e quando

Aver chiare le differenti competenze può facilitare il ricorso ai diversi esperti della salute mentale

 

 

 

 

 Sentirsi depressi, non riuscire a dormire la notte, l’ansia che non abbandona, lo stress fuori controllo. Sintomi comuni, che la maggior parte di noi ha sperimentato in qualche momento della vita. Possono essere normali, per esempio, in seguito a un evento traumatico come un lutto, la perdita del lavoro, la fine di un amore o una malattia. Ma le reazioni di ciascuno alle intemperie del destino dipendono dalla storia personale, dagli aspetti biologici, dal contesto in cui si vive. Se, a distanza di tempo, quei sintomi persistono e diventano ingestibili, potrebbero essere la spia di una sofferenza più profonda. Secondo le stime della Società italiana di psichiatria (Sip), circa 4 italiani su 10 soffrono di qualche disturbo psichico.
PREGIUDIZI - «Nella maggior parte dei casi non si tratta di problemi cronici o severi - chiarisce il presidente della Sip, Claudio Mencacci -. Ma, se un disturbo viene sottovalutato, può cronicizzarsi e aggravarsi col passare del tempo. Purtroppo, la maggior parte di chi ne soffre non accede alle cure o lo fa in ritardo: tuttora esiste intorno alla salute mentale un alone di paure, vergogna, pregiudizi». Così si tende a nascondere il disagio, eppure la maggior parte dei disturbi psichici è curabile. «Oggi - sottolinea lo specialista - esistono trattamenti efficaci. Anche in caso di malattie più severe i trattamenti permettono, se non di guarire completamente, almeno di gestirle meglio, consentendo ai pazienti di condurre una vita dignitosa». Il primo passo, quindi, è abbattere il muro di paura nei confronti dei disturbi psichici e lo stigma dell’incurabilità che da sempre accompagna la sofferenza mentale. Ma quali sono gli specialisti cui fare riferimento? Quando occorre chiedere aiuto allo psicologo? Quando allo psichiatra, piuttosto che al neurologo? «A volte i loro ruoli si sovrappongono erroneamente - chiarisce Mencacci -, ma ciascuno ha un suo percorso formativo e competenze specifiche».
GLI SPECIALISTI - Partiamo dalla formazione. Lo psichiatra e il neurologo sono medici, che hanno conseguito la specializzazione nelle rispettive branche. Lo psicologo, dopo essersi laureato in psicologia, ha svolto un tirocinio e poi ha sostenuto l’esame di Stato per iscriversi all’Albo professionale. Non essendo medico, però, non può prescrivere farmaci. La psicoterapia, invece, può praticarla chi è abilitato, sia psicologo che medico, previa formazione specifica. «Lo psicologo è, in genere, la figura professionale che incute meno timore, mentre ci possono essere ancora ritrosie a rivolgersi allo psichiatra - fa notare Mencacci -. Ma lo psichiatra, oltre a un sapere relazionale che deriva dalla formazione in psicoterapia, ha una competenza medica che gli permette di fare la diagnosi: per esempio, un disturbo da panico potrebbe essere anche la “spia” di problemi cardiologici o alla tiroide. Oggi, poi, la psichiatria non si occupa più solo della follia e di malattie psichiche gravi, ma della salute mentale in senso lato e cura anche disturbi come ansia e depressione». Proprio per facilitare l’accesso alle cure, anche per superare la barriera della vergogna ad andare da quello che a volte viene ancora considerato il medico dei “matti”, esistono in diverse realtà, nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, ambulatori specifici dove curare, per esempio, la depressione post-partum, l’ansia o disturbi post-traumatici da stress.
IL NEUROLOGO - Quando, invece, occorre rivolgersi al neurologo? «Se in passato il neurologo si occupava anche di alcuni disturbi psichiatrici - spiega Giancarlo Comi, già presidente della Società italiana di neurologia -, oggi questo specialista si concentra sulle patologie d’organo e demanda i disturbi della personalità allo psichiatra, anche quando questi ultimi compaiono in persone che soffrono di malattie neurologiche. Per esempio, al neurologo spetta la cura del malato di Alzheimer, mentre i disturbi complementari di comportamento, come la depressione, sono di competenza dello psichiatra».
LO PSICOLOGO - E qual è il ruolo dello psicologo? «Innanzitutto bisogna stare attenti a non etichettare come disturbi anche reazioni normali, per esempio quelle in seguito a un lutto - avverte Pierluigi Policastro, presidente di Sipap, la Società italiana psicologi area professionale privata, che lo scorso ottobre ha promosso una campagna d’informazione proprio per fare chiarezza tra i cittadini sulle diverse figure di riferimento -. Se poi quell’evento traumatico, col passare del tempo, rischia di trasformarsi in depressione, allora diventa necessario il supporto psicologico». Aggiunge il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, Giuseppe Luigi Palma: «Noi operiamo su variabili specificatamente psicologiche, quali la consapevolezza di sé, l’autostima, le risorse emotive, relazionali o cognitive, intervenendo con tecniche e approcci diversi per migliorare la qualità di vita della persona, ad esempio, mettendola in grado di far fronte allo stress». «Che le cure psicologiche e la psicoterapia siano valide, per esempio, nel trattamento dell’ansia e della depressione lieve e moderata, è stato confermato da un recente studio dell’American Psycologist Association - sottolinea Policastro -. Si ottengono risultati più duraturi rispetto all’uso dei soli psicofarmaci, perché si aiutano le persone a prendersi carico della complessità degli eventi che vivono. Certo, se i sintomi diventano particolarmente invalidanti, vanno usati anche i farmaci, che saranno prescritti dai medici».
PREVENZIONE - Serve, quindi, l’integrazione tra le diverse competenze. «Ciascun professionista fa la sua parte, importante è affidarsi ad esperti - puntualizza Mencacci -. A volte, proprio perché si ha paura di rivelare la propria sofferenza, si cercano soluzioni alternative, rivolgendosi a “guaritori” improvvisati. Occorre invece parlare subito dei propri disturbi col medico di famiglia, che ha il compito di indirizzare il paziente verso il percorso più adeguato». La prevenzione e la diagnosi precoce svolgono come al solito un ruolo fondamentale. «La maggior parte dei disturbi psichici, anche i più severi come quelli psicotici (per esempio, disturbi dell’umore o schizofrenia), si manifesta già nell’adolescenza - afferma lo psichiatra -. Individuarli tempestivamente significa intervenire al più presto e ottenere risultati efficaci». Occorre, però, potenziare i servizi sul territorio.
LA CRISI - «In questi anni, anche a causa della crisi economica, i bisogni di salute mentale sono aumentati - continua Mencacci -. E i servizi, depauperati, non sempre sono in grado di dare risposte adeguate alle persone. Rafforzarli significa investire sulla vita delle persone e del Paese, dal momento che i disturbi psichici provocano disabilità in un caso su quattro, con enormi costi per la collettività». «In Italia - aggiunge Policastro - la psicoterapia viene vista ancora come un lusso. Eppure, uno studio della London School of Economics evidenzia che le cure psicologiche, oltre a migliorare la qualità di vita dei pazienti, fanno risparmiare». I motivi? Si ricorre meno alle medicine e si riducono sensibilmente le assenze dal lavoro per malattia. «Parte di quel risparmio - conclude lo psicologo - potrebbe essere investita in servizi offerti nell’ambito del sistema sanitario pubblico a chi ne ha bisogno».

 Fonte: Corriere.it

giovedì 7 novembre 2013

Ambientalisti Taranto per istituzione registro casi endometriosi



(AGI) - Taranto, 4 nov.- Nel convegno sui temi della salute, dell'ambiente e del lavoro che si terra' giovedi' a Taranto su iniziativa dell'arcivescovo Filippo Santoro, presenti i ministri dell'Ambiente, Andrea Orlando, e della Salute, Beatrice Lorenzin, il movimento ambientalista tarantino chiedera' fra l'altro l'istituzione di un "Registro regionale pugliese per l'Endometriosi". La richiesta e' sostenuta dall'Isde, l'associazione medici per l'ambiente, e dall'Ordine dei medici di Taranto.
  "Si parla di un 10% di donne tarantine toccate da questa malattia - e' stato affermato oggi in una conferenza stampa dal movimento "Taranto Lider" - ma noi crediamo che i casi siano di piu'". Tre milioni in tutta Italia sono le donne colpite da una patologia importante che investe l'apparato riproduttivo femminile, causando danni psico-fisici, forti dolori e infertilita'. Dati e studi recenti dimostrerebbero quanto l'inquinamento da sostanze tossiche, in particolare da diossine e Pcb, possa incidere sull'insorgenza di questa patologia.
  "Questo significa che sarebbe possibile fare prevenzione primaria - spiega "Taranto Lider" - se solo avessimo dati epidemiologici attendibili anche in Puglia, una regione che presenta numerose aree caratterizzate da livelli critici di inquinamento." La richiesta di "Taranto Lider" e' sostenuta anche dall'associazione "Passeggino Rosso", un movimento di donne di Brindisi nato per richiamare l'attenzione sui problemi che colpiscono la salute dei bambini e delle donne.
  L'istituzione del Registro regionale per la raccolta e l'analisi dei dati clinici e sociali riferiti alla malattia dell'endometriosi avra' il fine di stabilire appropriate strategie di intervento, di monitorare l'andamento e la ricorrenza della malattia, nonche' di rilevare le problematiche connesse e le eventuali complicanze, e infine di mettere in atto strategie di prevenzione primaria nelle zone a rischio.
  "Le donne che hanno contratto questa malattia - aggiunge D'Amato - dovranno usufruire in Puglia dell'esenzione del ticket sanitario e delle agevolazioni per le analisi e per le cure". Il comitato "Taranto Lider" ha anche lanciato una petizione on line con quale si rivolge direttamente al governatore della Puglia, Nichi Vendola, per chiedere "una legge per la tutela delle donne affette da endometriosi". Ad ottobre del 2012 questa malattia e' stata inserita nelle nuove tabelle dell'Inps come causa di invalidita' civile.
  L'endometrio e' un tessuto presente all'interno dell'utero e quando si sviluppa anche in altre parti del corpo e non solo all'interno dell'utero, si parla di endometriosi, e' stato spiegato oggi. Precisato anche che interessa soprattutto le donne di 30-40 anni e che si verifica piu' spesso nelle donne che non hanno mai avuto figli. I sintomi si possono raggruppare in due gruppi fondamentali: dolore e infertilita'. E l'infertilita' puo' essere causata anche da fattori biochimici.
Fonte AGI.
 

venerdì 4 ottobre 2013

Le giuste domande da fare al medico






Quali domande porre a uno specialista prima di sottoporsi a un intervento chirurgico o iniziare un trattamento farmacologico? Come comportarsi con il proprio medico? Che cosa chiedere prima di firmare un consenso informato?
PNLG ha organizzato un seminario sul tema: «Le giuste domande da fare al medico su screening e terapie. Verso un consumatore scientificamente informato» aperto alle associazioni dei pazienti e dei consumatori, al fine di mettere a punto alcuni set di domande chiave da porre ai medici. Al seminario, tenutosi lo scorso novembre presso l'Istituto Superiore di Sanità (Roma), hanno partecipato in qualità di relatori Gianfranco Domenighetti ( direttore del Servizio Sanitario del Canton Ticino), per la parte relativa a screening e interventi chirurgici, e Pietro Dri (Zadig) per le domande sui farmaci.
  1. Un rapporto paritario
  2. Che cosa chiedere al medico riguardo a prestazioni diagnostiche e screening
  3. Che cosa chiedere per un intervento chirurgico elettivo
  4. Che cosa chiedere sui farmaci
1 UN RAPPORTO PARITARIO
«Bisogna adoperarsi perché il rapporto medico-paziente, troppo spesso di tipo «pediatrico», diventi un rapporto paritario tra adulti». Così scriveva qualche anno fa Domenighetti nel saggio intitolato Il mercato della salute: ignoranza o inadeguatezza? (Domenighetti 1994).
Durante una visita specialistica o di fronte al proprio medico di famiglia, infatti, troppo spesso il paziente ammutolisce e rinuncia a chiedere maggiori spiegazioni riguardo ai farmaci o agli esami prescritti e persino quando gli si prospetta la possibilità di un intervento chirurgico.
Al contrario, è bene abbandonare timidezze e cieca fiducia e imparare a porre le giuste domande: i consumatori, infatti, hanno solo da perdere quando iniziano un trattamento non necessario o senza averne compreso a fondo benefici e rischi.
1.1 Una visione mitica
E' opinione comune che la salute dipenda esclusivamente dalla disponibilità di servizi e dal consumo di prestazioni medico-sanitarie (ritenuto l’unico determinante della longevità). Da una ricerca condotta in Svizzera qualche anno fa è infatti emerso che, secondo l’opinione della popolazione, il maggior contributo all’innalzamento della vita media sarebbe stato dato proprio dall’incremento dei servizi sanitari offerti.
Questa convinzione ben si inquadra all’interno di una visione «mitica» della medicina: tra i laici (vale a dire i non medici) è diffusa l’idea che sia sempre meglio diagnosticare una malattia prima che essa si manifesti (secondo il motto «prevenire è meglio che curare») e, soprattutto, che la medicina sia una scienza esatta. Una visione, questa, che trascura o addirittura omette nozioni fondamentali come quella di rischio, di evento avverso, di incertezza e di conflitto di interesse e che sottovaluta l’importanza della condizione socio-economica dei cittadini.
In realtà dalla ricerca emerge che a vivere più anni sarebbero le persone appartenenti a classi socio-professionali elevate, proprio come nel disastro del Titanic furono i passeggeri di prima e seconda classe ad avere maggiori probabilità di salvarsi.
La condizione socio-economica sembra dunque essere il vero determinante della longevità, mentre l’equità di accesso alle prestazioni e ai servizi sanitari non garantisce pari qualità e quantità di vita.
1.2 Una scienza esatta?
«Solo il 15 per cento degli interventi medici è basato su solide evidenze scientifiche». Questa l’opinione, autorevole, di Richard Smith, fino a non molto tempo fa direttore ed editore di una delle più prestigiose riviste mediche del mondo: il British Medical Journal. In un editoriale pubblicato oltre dieci anni fa (Smith 1992), Smith propone ai medici una «etica dell’ignoranza», perché riescano a gestire nel modo migliore questa abbondante parte di incertezza (il restante 85 per cento) «in particolare durante le visite, troppo spesso divenute una costosa e inutile “folie à deux” in cui le attese corrispondono più ai desideri che alla realtà».
Eppure le informazioni non specialistiche diffuse dai mass media, dagli opuscoli prodotti dai servizi sanitari e dai bollettini di associazioni e società scientifiche promuovono incessantemente il consumo di screening e terapie, alimentando in questo modo da un lato le ansie riguardo alla miriade di rischi sanitari che sarebbero costantemente in agguato e dall’altro le false speranze sulle possibilità di cura per molte malattie diagnosticate.
1.3 La salute è essenzialmente informazione
Sui mercati tradizionali si dà per scontato che i consumatori siano in possesso delle informazioni necessarie per operare le proprie scelte in modo tale da massimizzare l’ utilità e la soddisfazione.
Ciò che distingue il mercato sanitario dagli altri mercati, tuttavia, è proprio la cosiddetta asimmetria dell’informazione (vale a dire la mancanza di trasparenza tra domanda e offerta sulla qualità, l’utilità, i benefici ed i rischi delle prestazioni sanitarie) che rende il paziente-consumatore un soggetto economicamente debole:
«L’informazione è importante per la salute del paziente tanto quanto i medicamenti, gli esami biomedici o gli interventi chirurgici». Ma quale informazione?
Proprio perché gli interessi economici in gioco sono ingenti, è fondamentale comprendere quali siano i canali della corretta informazione medica, che deve essere:
  • fondata sulle prove di efficacia (evidence based medicine);
  • completa (senza trascurare rischi, effetti avversi, incertezze); corredata da referenze scientifiche;
  • libera da conflitti di interesse (economici, professionali, scientifici);
  • focalizzata sulla presa di decisione;
  • facilmente comprensibile e adattabile al proprio caso.
2 CHE COSA CHIEDERE AL MEDICO RIGUARDO A PRESTAZIONI DIAGNOSTICHE E SCREENING
Negli ultimi anni si è assistito a una sempre maggiore promozione di screening e prestazioni diagnostiche: il messaggio che viene trasmesso ai consumatori e potenziali pazienti è che quanto prima si arriva a diagnosticare una malattia, tanto più efficace sarà la possibilità di curarla e più sicura sarà dunque la guarigione. Ma diagnosi precoce non è di per sé sinonimo di guarigione.
2.1 Prima domanda
Quale malattia si può diagnosticare con il test che mi propone?

La fiducia negli screening è tale che, secondo un recente studio statunitense (Schwartz 2004), oltre il 70 per cento degli americani preferirebbe sottoporsi a un total body scanner piuttosto che ricevere un regalo di 1.000 dollari.
Meglio, tuttavia, non farsi prendere da facili entusiasmi. Oltre alla costante promozione della medicina predittiva, infatti, la tendenza degli ultimi anni è quella di trasformare condizioni di vita «normali» in «patologiche»: i sani, una volta convinti di essere ammalati, diventano così nuovi potenziali clienti.
Nel 2002 il British Medical Journal ha operato una minuziosa classificazione delle «non-malattie» (Internazional classification of non-diseases) arrivando a contarne circa 200, tra cui le più comuni sono:
  • calvizie;
  • sindrome del colon irritabile;
  • osteoporosi;
  • menopausa;
  • cellulite;
  • abbassamento del livello di testosterone (dovuta all’età);
  • vecchiaia;
  • gravidanza;
  • disfunzione erettile;
  • fobia sociale;
  • sindrome da stanchezza cronica.
Prima di sottoporsi a uno screening, dunque, è importante capire di che cosa si sta andando in cerca: se di una malattia «vera» o di una «non-disease.
2.2 Seconda domanda
Qual è la precisione del test? In particolare qual è la probabilità di avere risultati falsi positivi o falsi negativi?

E’ convinzione comune che i risultati dei test diagnostici siano infallibili. In realtà alcuni sono caratterizzati da un’ottima precisione, mentre altri hanno elevate probabilità di fornire un esito positivo quando invece non si è affetti dalla malattia (un «falso positivo») o, al contrario, un tranquillizzante esito negativo (un «falso negativo»), quando in realtà si è già ammalati.
Un esempio al riguardo è lo screening (inutile) per il tumore al pancreas (praticamente incurabile) che consiste in un semplice esame del sangue, e che fornisce risultati falsi positivi nel 70 per cento dei casi. Quanti sarebbero disposti a sottoporsi ugualmente al test sapendo che con grande probabilità fornirà un esito sbagliato, quindi per niente rassicurante, rendendo necessari altri esami per confermare la diagnosi?
Secondo una ricerca condotta in Svizzera molte meno persone: suddividendo in due gruppi i pazienti a cui veniva proposto lo screening, infatti, e fornendo al secondo molte più informazioni sulla precisione dell’esame rispetto al primo gruppo, il consenso calava dal 60 per cento (nel primo gruppo che non aveva ricevuto informazioni) al 13 per cento (secondo gruppo «informato»).
Prima ancora di porsi domande sulla precisione di uno screening, tuttavia, è importante fare chiarezza sul suo significato: da un altro studio (Domenighetti 2003) è infatti emerso che in Italia l’80 per cento delle donne ritiene che lo screening mammografico eviti o riduca il rischio di ammalarsi in futuro di tumore al seno (in Gran Bretagna il 70 per cento e negli Stati Uniti circa il 60 per cento).
Questo dato la dice lunga sulla qualità dell’informazione che le donne ricevono sulla mammografia, e in particolare fornisce una misura dell’enfasi che i mass media e gli opuscoli informativi distribuiti dalle strutture sanitarie pongono nell’accentuare i benefici dello screening.
Un altro esempio poco incoraggiante arriva dagli Stati Uniti, dove (secondo uno studio pubblicato su JAMA) il 50 per cento delle donne che non hanno più il collo dell’utero a seguito di isterectomia totale continua comunque a sottoporsi a un inutile Pap-test (Sirovich 2004).
2.3 Terza domanda
L’esame è scientificamente provato (evidence-based)?

Perché un esame sia scientificamente provato è fondamentale che siano stati condotti studi che provino l’efficacia diagnostica e valutino gli effetti collaterali: la qualità di queste ricerche è molto importante e la maggiore attendibilità viene fornita dagli studi randomizzati. La Cochrane Library svolge periodicamente revisioni sistematiche che analizzano i trial condotti e valutano le evidenze scientifiche: ciò che fino all’anno prima era ritenuto di efficacia dimostrata può risultare, in seguito a una nuova sperimentazione, meno efficace o addirittura inutile o viceversa.
Un’informazione aggiornata deve tenere conto di questi costanti cambiamenti, come delle controversie scientifiche in merito a uno screening: in Italia, per esempio, tutte le donne in gravidanza effettuano il toxo-test per individuare la presenza o meno di anticorpi al toxoplasma (che può causare gravi danni al feto). L’esame è spesato dal Servizio sanitario nazionale e può essere ripetuto ogni mese gratuitamente in caso di esito negativo.
Non accade lo stesso, tuttavia, in paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, che ritengono lo screening inutile e in certi casi dannoso (per il rischio di falsi positivi e di esami invasivi correlati).
2.4 Quarta domanda
Qual è l’incidenza della malattia nella popolazione?

L’incidenza di una malattia è il numero di persone colpite ogni centomila abitanti in un anno. Questo dato è importante per capire se si tratta di una malattia rara o comune.
È interessante notare il risultato di una ricerca pubblicata qualche anno fa sul New England Journal of Medicine, che mostrava come in persone decedute per incidenti stradali o altri traumi la prevalenza autoptica di alcuni tumori superi di gran lunga la prevalenza clinica: il tumore al seno in donne da 40 a 50 anni raggiunge il 40 per cento; quello alla prostata in uomini dai 50 ai 70 anni il 45 per cento (Black 1993).
A questo proposito ha sottolineato Domenighetti nel corso del seminario, «vi è una buona fetta di cancri in situ che rimane silente e non avrà nessuna rilevanza clinica: non è difficile immaginare cosa comporterebbe, anche solo in termini di inutili ansia e angoscia, la disponibilità di una tecnica in grado di identificare ciascuna cellula cancerosa».
2.5 Quinta domanda
La malattia che intende diagnosticare potrà poi essere guarita? E con quali probabilità di successo?

Dallo studio di JAMA già citato (Schwartz 2004), emerge inoltre che il 65 per cento degli americani sarebbe disposto a sottoporsi a un test di diagnosi precoce anche per un tumore per il quale non esiste nessuna cura.
In questo caso la diagnosi comporterebbe solo un peggioramento della qualità della vita senza alcuna speranza di cura.
Nel caso dello screening per il tumore alla prostata, per esempio, da uno studio pubblicato sugli Archives of Internal Medicine, è emerso che informando i pazienti del fatto che non si ha alcuna riduzione della mortalità a seguito dell’esame (quindi lo screening è inutile) (Wolf 1996) si ha un brusco calo (dell’80 per cento) nella disponibilità a effettuarlo.
2.6 Sesta domanda
Esistono altri effetti negativi o non desiderati?

La maggior parte delle informazione fornite ai consumatori enfatizza i benefici degli screening e non menziona i rischi, gli eventi indesiderati, le incertezze e le controversie di tipo scientifico.
Secondo una revisione della Cochrane Library (Olsen 2001), lo screening mammografico sottopone centinaia di donne ad ansia, falsi allarmi e false riassicurazioni, nonché biopsie chirurgiche inutili. Inoltre la stragrande maggioranza di donne a cui il tumore viene correttamente diagnosticato con tre o quattro anni di anticipo non riceve alcun beneficio dalla diagnosi precoce (ma si può immaginare come peggiori la qualità della vita).
La diffusione verso la società civile di messaggi rassicuranti sui benefici e l’opportunità di sottoporsi agli screening permette di ottenere:
  • un alto tasso di partecipazione (e di copertura dei costi) della popolazione eleggibile (obiettivo principale e indicatore di successo per i proponenti dello screening);
  • un pubblico riconoscimento dell’attenzione verso il benessere sanitario dei cittadini (obiettivo dei politici e degli amministratori);
  • un aumento dei casi eleggibili da includere negli studi randomizzati (obiettivo dei ricercatori e dell’industria).
3 CHE COSA CHIEDERE PER UN INTERVENTO CHIRURGICO ELETTIVO
Molte delle considerazioni fatte in merito agli screening possono essere estese anche al caso degli interventi chirurgici elettivi (vale a dire quelli non praticati d’urgenza).
Nel caso in cui si prospetti l’eventualità di un intervento chirurgico è opportuno richiedere un «secondo parere», in modo da acquisire un supplemento di informazione e poter dare un consenso più informato.
3.1 Prima domanda
Perché questo intervento chirurgico è necessario? Che cosa mi capiterebbe, e con quale probabilità, se questa operazione non fosse eseguita?

Nella comunità scientifica non vi è accordo sulla effettiva necessità di diversi interventi chirurgici elettivi: un esempio è l’utilizzo della chirurgia per alleviare il mal di schiena, oggi molto in voga ma anche criticata per scarsa efficacia.
Diversi pazienti con ernia al disco si sottopongono infatti alla fusione vertebrale senza trarne alcun giovamento, ma affrontando i rischi collegati a un intervento chirurgico.
3.2 Seconda domanda
Esistono uno o più trattamenti alternativi? Se sì, quali sono i rischi e i benefici in rapporto all’operazione proposta?

La diagnosi, la cura e la pratica utilizzata per risolvere o gestire un problema possono variare in funzione del medico consultato: nel caso del mal di schiena, per esempio, un consulto da un chirurgo fornirà con più probabilità un’indicazione per un intervento rispetto a una visita ortopedica.
In quest’ottica si comprende facilmente l’importanza di un secondo parere, che non nasce dalla sfiducia nelle capacità dello specialista che si ha di fronte, ma dall’incertezza intrinseca della medicina, che genera «insicurezza diagnostica e terapeutica».
Di ogni alternativa prospettata è importante comprendere i benefici e i rischi associati: questo aspetto è fondamentale per poter dare un consenso davvero informato.
3.3 Terza domanda
Al mio posto lei si sarebbe sottoposto al medesimo trattamento? L’avrebbe proposto ai suoi familiari? Se no, per quali motivi?

Da uno studio sul ricorso alle pratiche sanitarie dei medici e dei loro familiari (una popolazione campione prilegiata perché informata in maniera più adeguata rispetto al resto dei pazienti), è emerso che esistono notevoli differenze rispetto al resto della popolazione: nel caso, per esempio, della tonsillectomia in età pediatrica (un altro intervento molto discusso) la prevalenza nel campione considerato era del 18 per cento, contro il 33 per cento di interventi tra i bambini non figli di medici.
Ciò dimostra che quando si ha accesso a un’informazione più critica e aggiornata il ricorso a molte pratiche cliniche discusse diminuisce notevolmente.
In un opuscolo prodotto dal Servizio sanitario del Canton Ticino e distribuito a tutte le famiglie si proponeva di chiedere un secondo parere medico per i seguenti interventi chirurgici:
  • l’asportazione di calcoli biliari (colecistectomia);
  • l’asportazione di emorroidi (emorroidectomia);
  • l’asportazione chirurgica dell’utero (isterectomia) quando l’indicazione non è una malattia tumorale;
  • l’operazione dell’ernia inguinale;
  • l’asportazione delle tonsille (tonsillectomia);
  • il raschiamento dell’utero;
  • l’operazione della prostata quando l’indicazione non è una malattia tumorale;
  • l’asportazine del menisco;
  • l’operazione alla cataratta;
  • l’asportazione delle vene varicose (varici);
  • l’operazione dell’ernia discale quando non esistono paralisi agli arti inferiori e/o alla vescica e all’intestino.
4 CHE COSA CHIEDERE SUI FARMACI
L’informazione diffusa dai mass media riguardo ai farmaci dovrebbe evitare qualsiasi tono «miracolistico» e non trascurare effetti collaterali e controindicazioni. Purtroppo ciò accade di rado ed è una pratica diffusa tra i giornalisti quella di accettare inviti a convegni in località turistiche e a spese delle aziende farmaceutiche per assistere alla presentazione di un nuovo farmaco e scrivere un articolo al riguardo.
Per sottolineare l’importanza di un’informazione corretta e completa, nel 2004 Riccardo Renzi (Corriere Salute), Roberto Satolli (Zadig) e Giampaolo Velo (WHO Reference Centre for Education and Communication in International Drug Monitorino) hanno curato la stesura di un documento che rappresenta una sorta di patto etico tra medici e giornali (leggi il testo completo sul sito di ScienzaEsperienza).
Anche gran parte dell’informazione che arriva ai medici proviene dall’industria farmaceutica. Per questo è opportuno chiedere spiegazioni al proprio medico se cambia un trattamento farmaceutico da anni in commercio (per cui esistono maggiori prove di efficacia e i cui effetti collaterali sono stati maggiormente studiati) e con il quale «ci si trovava bene», per un farmaco appena immesso sul mercato: potrebbe aver ricevuto la visita di un rappresentante dell’industria farmaceutica.
4.1 Prima domanda
A che cosa serve questo farmaco e come funziona? Qual è il nome del principio attivo? Esiste un farmaco generico analogo?

Conoscere il principio di funzionamento di un farmaco può essere utile per chiarire alcuni aspetti della propria malattia e per convincersi dell’efficacia. In commercio esistono quasi novemila specialità medicinali, e oltre 5.000 a denominazione generica (i principi attivi, tuttavia, sono poco più di 1.300): i farmaci generici non sono meno efficaci di quelli «griffati» e costano meno.
4.2 Seconda domanda
Quali effetti collaterali può provocare questo farmaco? Quali sono le controindicazioni?

Ogni prodotto farmaceutico ha effetti collaterali più o meno pericolosi per la salute (basta dare un’occhiata al foglietto illustrativo per rendersene conto), eppure questi aspetti raramente vengono sottolineati. I recenti scandali farmaceutici (come l’aumento di arresti cardiaci provocati dal rofecoxib o il rischio suicidiario legato al consumo di antidepressivi) sono derivati proprio dalla mancata diffusione da parte delle aziende farmaceutiche al pubblico e ai medici delle informazioni note da tempo sui pericolosi effetti.
4.3 Terza domanda
Esistono alternative non farmacologiche o farmaci che provocano minori effetti collaterali per curare questo disturbo?

Le strategie di marketing delle case farmaceutiche spingono verso la «medicalizzazione farmacologia» di situazioni che non sono, o lo sono in modo controverso, considerate patologiche. Il messaggio che arriva ai consumatori attraverso i mass media è che esista una pillola per ogni malanno, tuttavia molti disturbi possono trarre giovamento anche da pratiche non farmacologiche (per esempio attività fisica o una dieta particolare)
È bene che i consumatori conservino un sano scetticismo quando leggono un articolo su un farmaco e in particolare se questo descrive una nuova «sindrome» e la sua miracolosa cura appena scoperta.
Bibliografia

  • Black WC et al. Advances in diagnostic imaging and overestimations of disease prevalence and the benefits of therapy. N Engl J Med 1993; 328: 1237.
  • Domenighetti G. Il mercato della salute: ignoranza o adeguatezza? CIC Edizioni Internazionali, 1994
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  • Olsen et al. Cochrane Syst Review 2001.
  • Smith R. The ethics of ignorance. J Med Ethics 1992; 18: 117.
  • Schwartz LM et al. Enthusiasm for cancer screening in the United States. JAMA 2004; 291: 71.
  • Sirovich BE et al. Cervical cancer screening among women without a cervix. JAMA 2004; 291: 2990.
  • Wolf. Arch Inter Med 1996.
Simona Calmi/Partecipa Salute

lunedì 2 settembre 2013

Il lato positivo della depressione

A cura di Laura Taccani

In diverse forme, la depressione interessa quindici milioni di italiani. Ossia circa il 25% della popolazione. Mettendo insieme i vari tipi e i diversi gradi di intensità, i numeri del “male oscuro” fanno paura. Sono cifre da epidemia, peraltro in costante aumento. C’è però un nuovo punto di vista sulla questione, che sta portando diversi studiosi a “rivalutare” alcuni aspetti di una patologia che colpisce la popolazione femminile in misura maggiore di 2/3 rispetto a quella maschile. In sintesi, guardando la diffusione della depressione in chiave evoluzionistica, alcuni psichiatri e psicologi sono arrivati a ipotizzare che anche questo male abbia una sua (per quanto dolorosa) funzione. E cioè spingere gli individui a concentrarsi sui propri problemi, per cercare di trovarvi una soluzione. La depressione – è stato sintetizzato dal New York Times Magazine in un articolo che affrontava questo dibattito – sarebbe in questo senso come la febbre. Una reazione che aiuta il sistema immunitario ad adattarsi a una situazione problematica, e dunque a reagire. Di questa tesi controversa abbiamo parlato con la dottoressa Anna Maria Casale, psicologa e psicoterapeuta a Roma.
Cos’è la depressione
Prima di tutto, esordisce la specialista, bisogna ribadire una premessa fondamentale. Al di là dei discorsi sul possibile “lato positivo” della depressione, e delle ricerche che avvalorano questa tesi. «Non va mai dimenticato che la depressione è una patologia seria e invalidante, che deve necessariamente essere diagnosticata e curata con un approccio integrato, sia psicologico che farmacologico. Una diagnosi precoce aiuta il decorso della malattia, perché l’individuo depresso è ancora fornito di energie vitali da poter utilizzare per il percorso di guarigione. In questo senso è fondamentale il ruolo delle persone vicine al malato, che hanno il dovere di comunicare con lui e magari indirizzarlo e sostenerlo. Anche per far uscire la persona dalla vergogna che spesso si accompagna a questa condizione». Ma cos’è esattamente la depressione, che nel linguaggio comune viene spesso confusa con la tristezza come se i due termini indicassero concetti intercambiabili? Ecco come lo spiega la dottoressa Casale: «Tra le due forme c’è una differenza sostanziale. La tristezza è una risposta naturale e innata a stati di privazione e perdita. Si tratta di una delle componenti della depressione che, invece, è una vera e propria patologia e non – come  spesso si pensa – uno stato di tristezza eccessiva e continuativa». Esistono diversi tipi di depressione. Da quella occasionale – una risposta a eventi particolarmente stressanti come lutti o separazioni – a quella legata a momenti delicati: per esempio la depressione post partum. Poi c’è la depressione intesa come situazione cronica (quindi svincolata da eventi specifici) e in questo caso si parla di depressione maggiore.

Il lato positivo della depressione 

La depressione può essere una risorsa?
Ed eccoci al punto: come è possibile che una patologia così invalidante possa essere vista alla pari di una risorsa? Spiega la dottoressa Casale: «Conoscere i propri limiti e sapere a cosa si va incontro in situazioni di grave difficoltà e debolezza psicologica, aiuta a gestire meglio i momenti critici. Facilita lo sviluppo di una sensibilità personale verso la debolezza propria e altrui, aiuta a percepire meglio il valore della vita e della salute, proprio perché si comprende cosa significa non riuscire a farlo». I primi a sostenere in modo articolato che la depressione può essere letta in chiave positiva sono stati i due ricercatori americani Andrews e Thomson.
Ai loro occhi la diffusione pandemica della depressione (un disturbo che può impedire la riproduzione e arriva a spingere al suicidio) sembrava “sfidare” le teorie evolutive di Darwin. In altre parole si sono chiesti come potesse essere così frequente un fenomeno estremamente pericoloso dal punto di vista evoluzionistico. Ed ecco l’ipotesi che hanno formulato, e tentato di dimostrare con le loro ricerche: la “ruminazione mentale” (quel continuo rimuginare sui problemi che caratterizza l’attività mentale del depresso) ha una funzione positiva: impedire al malato di distrarsi, e tenere la sua attenzione concentrata sul problema specifico che deve risolvere, o sulla situazione che deve imparare ad accettare. Chiarisce la dottoressa: «Secondo i due ricercatori, l’individuo viene posto di fronte alle proprie difficoltà e la mente tenta di superarle attraverso la “chiusura” tipica della depressione. Ovvero attraverso il rimuginio e la concentrazione su se stessi. Thomson ed Andrews non negano naturalmente la sofferenza legata alla malattia, ma ipotizzano che questa possa servire a imparare dai propri errori e a dare importanza alle cose di cui si ha davvero bisogno. Altri studiosi parlano di “realismo depressivo” spiegando con questo termine il fatto che le persone depresse hanno una visione delle cose più realistica. Sono stati condotti dei test, a questo proposito, nei quali le persone affette da depressione hanno ottenuto, rispetto al campione, dei punteggi più alti su una scala che misurava la capacità di analisi realistiche e la consapevolezza di fronte ai problemi».
 La tesi di Thomson ed Andrews ha ovviamente sollevato molte polemiche, e diversi colleghi dei due ricercatori si sono dichiarati scettici nei confronti delle loro ricerche. Di certo c’è che la questione è attuale e l’ipotesi tutt’altro che isolata. Per restare in Italia, la psicoterapeuta Ivana Castoldi ha appena pubblicato con lo stesso approccio di riflessione il saggio Riparto da me. Trasformare il mal di vivere in una opportunità per sé (Feltrinelli). Il punto di vista dell’autrice è appunto l’idea che la depressione sia parte integrante dell’esperienza affettiva di molte persone, e che il suo carico di dolore non debba essere rimosso ma trasformato in un’opportunità di riscatto. Più facilmente di quanto si possa credere.

Fonte: Esseredonnaonline.it
 

martedì 6 agosto 2013

Sanità, depositata in Regione Lazio proposta legge su endometriosi

“Ho depositato in Consiglio regionale una proposta di legge sull’endometriosi, una patologia che nel Lazio colpisce una donna su dieci. Quasi 300mila pazienti, costrette in certi casi ad aspettare fino a dieci anni per ricevere una diagnosi corretta, che vivono una quotidianita’ segnata da dolori mestruali fortissimi e rapporti sessuali praticamente impossibili”.

Lo scrive – come riporta l’agenzia Dire – sul suo sito Teresa Petrangolini, consigliera regionale del gruppo ”Per il Lazio” e membro dell’Ufficio di presidenza (www.teresapetrangolini.it). “Si tratta di una patologia in costante crescita – prosegue la consigliera regionale – le cui cause non sono ancora del tutto note e che costituisce oggi una delle piu’ diffuse cause di infertilita’: ne e’ colpito circa il 30 per cento delle donne che non riescono a procreare.

Con questa proposta di legge – spiega – intendiamo introdurre anche nel Lazio un primo necessario aiuto per la tutela della salute di queste donne e sono particolarmente soddisfatta che sia stata sottoscritta da tanti altri colleghi, sia di maggioranza che di opposizione: il capogruppo Riccardo Valentini, Marta Bonafoni e Rosa Giancola (”Per il Lazio”), il capogruppo del Pd, Marco Vincenzi, e quello della Lista Zingaretti, Michele Baldi, il presidente della commissione Salute e Politiche sociali, Rodolfo Lena (Pd), il vicepresidente del Consiglio regionale Francesco Storace (La Destra), Fabio De Lillo del Pdl e il capogruppo del Movimento 5 stelle, Davide Barillari”.

La legge ha come finalita’: la promozione della prevenzione e della diagnosi precoce dell’endometriosi, nonche’ il miglioramento della qualita’ delle cure; la promozione della conoscenza della malattia e dei suoi effetti dal punto di vista sanitario, sociale e lavorativo; il riconoscimento dell”associazionismo specifico del territorio e delle attivita’ di volontariato finalizzate a sostenere e aiutare le donne affette da endometriosi e le loro famiglie.

E’ prevista l”istituzione – senza alcun onere per il bilancio regionale – di un osservatorio sulla patologia, di un registro regionale per l’endometriosi per la raccolta e l’analisi dei dati clinici e sociali riferiti alla malattia, anche al fine di prevenirla, visto che cogliere la malattia in fase precoce significa ridurre di 25 volte la spesa sanitaria e previdenziale. Prevista, infine, l’istituzione di una ”Giornata regionale dell’endometriosi” da tenersi ogni anno l’8 marzo, Festa della donna. La proposta di legge si compone di 9 articoli ed e’ consultabile sul sito del Consiglio regionale (http://atticrl.regione.lazio.it/allegati/propostelegge/PL%20050.p df), mentre la relazione illustrativa e’ presente anche sul sito di Teresa Petrangolini (http://www.teresapetrangolini.it/endometriosi-presentata-la-propo sta-di-legge-in-consiglio-regionale/).

Fonte: ON TUSCIA.IT

venerdì 19 luglio 2013

Età post fertile

 

La menopausa è l'evento fisiologico che nella donna corrisponde al termine del ciclo mestruale e dell'età fertile. Il termine menopausa deriva infatti dal greco men (mese) e pausis (fine). Con la parola climaterio (dal greco klimactèr= passaggio/scalino) si indica, invece, un periodo più lungo che comprende i mesi che precedono e seguono la menopausa. 

In genere la menopausa si verifica tra i 45 ed 55 anni di età, ma non sono rare menopause precoci e tardive.
Già alcuni mesi prima della cessazione delle mestruazioni si osservano alterazioni del ciclo mestruale (mestruazioni ravvicinate ed abbondanti oppure più distanziate tra di loro). Nello stesso periodo, le ovaie cessano la loro attività e, di conseguenza diminuisce nel sangue la quantità degli estrogeni, cioè di quegli ormoni prodotti fino allora dalle ovaie.

La diminuzione degli estrogeni può provocare alcuni disturbi e sintomi sia di natura neurovegetativa (vampate di calore, sudorazioni profuse, palpitazioni e tachicardia, sbalzi della pressione arteriosa, disturbi del sonno, vertigini, secchezza vaginale e prurito genitale), sia di natura psicoaffettiva (irritabilità, umore instabile, affaticamento, ansia, demotivazione, disturbi della concentrazione e della memoria, diminuzione del desiderio sessuale).  
Le conseguenze più importanti del calo degli estrogeni sono: l'aumento del rischio cardiovascolare (infarto cardiaco, ictus cerebrale, ipertensione), le patologie osteoarticolari, in particolare  l’aumento dell’incidenza dell’osteoporosi.

Fino alla menopausa, infatti, le donne hanno un rischio cardiovascolare inferiore a quello degli uomini perché gli estrogeni prodotti dalle ovaie garantiscono una minore quantità di colesterolo nel sangue. Le malattie cardiovascolari rappresentano altresì, la principale causa di morte per la donna in menopausa, superando di gran lunga tutte le forme di neoplasie, compreso il cancro della mammella.
Tali coseguenze, in particolare la maggior incidenza di osteoporosi, hanno notevole impatto sia sulla salute pubblica che sul bilancio economico del Paese.

Il medico dovrebbe sempre valutare il rapporto rischio/beneficio quando prescrive una terapia alla donna in menopausa che lamenta disturbi, in modo da aiutare la donna stessa ad operare una scelta informata.
Dal punto di vista sanitario, dunque, risulta importante l’attuazione del Piano Nazionale di Prevenzione 2010-2012 elaborato dal Ministero della Salute, con il quale sono stati previsti, ambiti specifici di intervento:prevenzione delle patologie cardiovascolari, prevenzione delle complicanze del diabete, diagnosi precoce dei tumori. 

Tra le varie terapie sintomatiche utili a risolvere i sintomi connessi alla menopausa, esiste la terapia ormonale sostitutiva, che può ridurre i sintomi e, contemporaneamente, proteggere nei confronti dell’osteoporosi e delle malattie cardiovascolari, se somministrata correttamente dopo un accurato esame clinico della paziente.
La paura del cancro induce molte donne a non prendere in considerazione la terapia ormonale sostitutiva come una valida opzione da poter scegliere per ottenere sollievo dai sintomi causati dalla menopausa.
Per molte donne, infatti, un'appropriata terapia ormonale, pianificata e monitorata con cura, può aumentare la vita media e migliorare, in modo significativo, la qualità di vita degli anni postmenopausali. In tal modo è possibile rendere prevenibili le patologie cronico-degenerative, le loro complicanze e i tumori.


Fonte: Ministero della Salute

martedì 25 giugno 2013

ENDOMETRIOSI, NEL LAZIO COLPISCE QUASI 300MILA DONNE. I GINECOLOGI: “SUBITO I REGISTRI REGIONALI PER MONITORARLA”

Una malattia in continua crescita, dall’allarmante peso sociale: per 8 pazienti su 10 ha serie influenze sul lavoro. Il prof. Vittori (SIGO): “Con l’adesione di 5 Governatori possiamo estendere automaticamente l’Osservatorio a tutto il Paese. Aiutando anche il welfare” 

Nel Lazio, una donna su 10 soffre di endometriosi. Quasi 300mila pazienti, costrette in certi casi ad aspettare fino a dieci anni per ricevere una diagnosi corretta. Vivono una quotidianità segnata da dolori mestruali fortissimi e rapporti sessuali praticamente impossibili. Il 79% ha ripercussioni sul lavoro. Ma oggi la ricerca è in grado di offrire loro un aiuto importante: si chiama dienogest ed è la prima terapia orale specifica approvata per la malattia. “È una molecola caratterizzata da profili di tollerabilità e sicurezza che ne permettono l’impiego a lungo termine – spiega il prof. Giorgio Vittori, Past President della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) durante il Sanit, il 10° Forum internazionale della salute in chiusura oggi a Roma –. Un progestinico in grado di ridurre il dolore e la sintomatologia. Erano vent’anni che aspettavamo questa rivoluzione. Infatti, l’endometriosi è una patologia molto invalidante. Le Società Scientifiche e le Associazioni di pazienti già nel 2005 avevamo proposto al Parlamento italiano di includerla tra le malattie di interesse sociale, perché non riguarda solo la qualità della vita, ma tocca problematiche ben più ampie. È una delle più diffuse cause di infertilità: ne è colpito il 30% delle donne che non riesce a procreare. Una situazione che aggrava un dato già allarmante: nel nostro Paese registriamo ogni anno 250mila nascite in meno di quelle necessarie per mantenere la curva della previdenza sociale. In un momento nel quale il tasso di fecondità è così basso, è evidente come l’endometriosi diventi una questione nazionale. Per fortuna, nel 2012 la malattia è stata aggiunta nelle tabelle di invalidità. Secondo il nostro parere, il prossimo passo decisivo è l’istituzione di Registri regionali, presenti ad oggi solo in Friuli, il primo a disporre, dopo legge ad hoc (n.18/2012), un Osservatorio sulla patologia con il compito di promuoverne la diagnosi precoce e la sua conoscenza. Il vantaggio della creazione di questi strumenti è poco percepito: conoscere meglio il disturbo permette di organizzare strategie appropriate e minimizzare gli sprechi. Coglierlo nelle prime fasi significa ridurre di 25 volte la spesa sanitaria e previdenziale. Lanciamo quindi un appello agli Enti locali: realizziamo i Registri regionali. Se soltanto accettassero cinque Governatori, l’estensione scatterebbe in automatico a tutta l’Italia”. L’endometriosi è una patologia dovuta alla presenza di tessuto endometriale al di fuori della sua sede naturale, l’utero, che migra in altre sedi del corpo determinando lesioni locali. È in costante crescita e colpisce fin dalla giovane età: 7 su 10 presentano manifestazioni tipiche addirittura da adolescenti, ma il 47% deve consultare addirittura cinque specialisti prima di ricevere la diagnosi. “La terapia a base di dienogest riveste un’importanza assoluta per le pazienti in età riproduttiva – aggiunge il prof. Felice Petraglia, Direttore della Scuola di Specializzazione in Ginecologia e Ostetricia dell’Università di Siena –. Induce uno stato di inibizione dell’ovulazione completo ma temporaneo, preservando così la salute delle ovaie. Come dimostrato dagli studi, dopo la sua sospensione l’attività fisiologica riprende in maniera regolare. L’efficacia della molecola permette di ridurre in modo drastico anche gli interventi chirurgici. Soluzioni comunque non definitive, che in un caso su 3 possono presentare recidive. Inoltre il dienogest non presenta conseguenze androgeniche di rilievo, come ad esempio l’irsutismo”.

Le cause dell’endometriosi non sono ancora del tutto note, ma è probabile che un ruolo importante lo giochi il numero medio di mestruazioni nella vita. Infatti, queste corrispondono a veri e propri picchi infiammatori, che colpiscono ovviamente l’utero e i suoi tessuti. “Il numero di cicli è aumentato in maniera considerevole nelle occidentali e in particolar modo nelle italiane – conclude il prof. Vittori –, perché procreano sempre di meno. Il tasso di fecondità del nostro Paese è di 1,39 figli per donna, uno dei più bassi al mondo, con un’età media al primo parto elevata: 31,4 anni. Questo purtroppo non basta a spiegare l’evoluzione di una patologia così particolare. Di conseguenza, per assicurare alle pazienti la miglior qualità di vita possibile dobbiamo monitorare con costanza l’evoluzione della malattia. Questo ci permetterà di prevenire danni più ampi, come sul fronte della fertilità, e di risparmiare. Non dimentichiamo che si tratta di pazienti costrette a consumare farmaci antidolorifici e prestazioni diagnostiche e terapeutiche in gran quantità, sia prima che dopo la diagnosi. L’endometriosi costa all’Unione Europea, in termini sanitari e socio-economici, circa 30 miliardi di euro l’anno”.  


 (Fonte: informazione.it - comunicati stampa)

SALUTE: BIANCONI, DATI SIGO CONFERMANO CHE ENDOMETRIOSI E' INVALIDANTE

(AGENPARL) - Roma, 21 giu - "I dati presentati oggi al Sanit a Roma dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) sulla gravità della patologia dell'endometriosi confermano quanto da anni, anche grazie all'Indagine conoscitiva del Senato, sosteniamo da tempo". Lo ha dichiarato in una nota la senatrice Laura Bianconi, capogruppo del GAL in Commissione Igiene e Sanità del Senato.
"Fino a quando non verrà istituito un vero e proprio registro nazionale su questa patologia - sottolinea Bianconi - non si potrà avere un quadro preciso delle donne che ne soffrono e, di conseguenza, una situazione chiara che ci permetta di allocare al meglio i fondi. Ben venga che oggi la Sigo ha ricordato nuovamente la gravità di questa patologia e l'alto numero di donne che ne soffre. Mi auguro - ha poi concluso Laura Bianconi - che presto anche le Tabelle d'invalidità vengano aggiornate così da comprendere la patologia dell'endometriosi, che per molte donne è veramente altamente invalidante. Un lavoro, questo sulle tabelle, che abbiamo fatto anche con il supporto dell'Inps già nella scorsa legislatura e che serve a sostenere queste donne anche economicamente, come ho avuto modo di ricordare recentemente in Commissione al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin".

Fonte: Agenzia Parlamentare

mercoledì 29 maggio 2013

Un alterato funzionamento della tiroide può essere causa di infertilità.

 
Le disfunzioni della tiroide  (ipotiroidismo e ipertiroidismo), se non correttamente trattate, possono  provocare irregolarità mestruali e dell’ovulazione, riducendo quindi le probabilità di concepimento.
E’ opportuno pertanto, prima di pianificare una gravidanza  effettuare un controllo della funzione tiroidea.
Gli ormoni tiroidei  svolgono un ruolo importante nella regolazione della fertilità infatti circa il 10% delle infertilità femminile sono legati a problemi di tale ghiandola.
E’ soprattutto l’ipotiroidismo a interferire con la fertilità della donna  provocando  un rallentamento  del metabolismo degli ormoni sessuali e in particolare dell’FSH, che potrebbe aumentare.
Inoltre nei casi di ipotiroidismo vi è un aumento del TRH (ormome di rilascio della tireotropina) e del TSH (thyroid-stimulating hormone, ormone tireostimolante),prodotti rispettivamente dall’ipotalamo e dell’ipofisi, che   provocano a loro  volta un aumento della prolattina  .
Di contro una condizione di ipertirodismo può causare una diminuzione nella quantità di estrogeni e quindi portare ad un’alterata crescita dell’endometrio con conseguenti  spotting anomali durante il ciclo.
Lo iodio è un elemento fondamentale per la fertilità e per il buon funzionamento dell’organismo. Livelli di iodio estremamente bassi nella dieta possono provocare una ridotta attività della tiroide,  e pertanto portare a stanchezza, depressione, dolori muscolari, perdita di memoria e intolleranza al freddo.
In età fertile quindi,  si  dovrebbero consumare 150 µg di iodio al giorno e  prediligere alimenti in essi contenuti , quali il pesce  ed i frutti di mare, il pane, il formaggio, il latte vaccino, le uova e gli yogurt.
L'apporto fornito dal sale iodato si associa a quello dei comuni alimenti garantendo, nell'ambito di una dieta comunque variata e bilanciata, la copertura del fabbisogno giornaliero.
Concludendo raccomandiamo alle coppie con problemi di infertilità di effettuare un controllo endocrinologico e determinare l’eventuale quantità di iodio di cui necessitano.

Fonte: Medicina della Riproduzione Italiana

lunedì 13 maggio 2013

Ecografia transvaginale

Che cos'è?

L'ecografia transvaginale o più semplicemente TVS (Trans-Vaginal Sonography) è una tecnica diagnostica per immagini, che indaga morfologia e stato di salute degli organi genitali interni femminili. Grazie a questo esame è quindi possibile studiare utero, ovaie ed annessi, e controllare la gravidanza nel primo trimestre o nel quadro di tecniche di riproduzione assistita.
L'ecografia transvaginale si basa sull'emissione di onde sonore ad elevata frequenza (non udibili dall'orecchio umano) da parte di una sonda inserita nella vagina; come in qualsiasi altro esame ecografico, le onde sonore emesse dall'apparecchio vengono in parte riflesse dai tessuti che incontrano, in relazione alla loro densità (fenomeno dell'eco). Le onde sonore così riflesse vengono captate dalla stessa sonda che le ha generate, ed elaborate da un calcolatore informatico per ricostruire immagini in tempo reale delle regioni anatomiche studiate.ecografia transvaginale

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Ecografia transvaginale: quando e perché si esegue?

L'ecografia transvaginale viene tipicamente impiegata in donne con problemi di infertilità, sanguinamenti anomali (che possono essere legati a cause benigne piuttosto comuni, come fibromi o polipi), dolori pelvici di origine ignota, amenorrea, malformazioni congenite di utero ed ovaie, e dinanzi al sospetto di tumori od infezioni.
Può essere inoltre impiegata al termine del primo mese di gravidanza (ecografia ostetrica) per la capacità di evidenziare più precocemente le immagini dell'embrione e degli annessi, con definizione e qualità d'immagini nettamente superiori all'ecografia transaddominale. In fasi successive della gravidanza, l'ecografia transvaginale può essere impiegata qualora si renda necessaria una miglior visualizzazione delle strutture adiacenti alla cervice. Ricordiamo che l'ecografia transvaginale non comporta l'impiego di radiazioni ionizzanti (come quelle utilizzate durante le radiografie) e non comporta quindi alcun pericolo per la madre ed il feto.

Ecografia transvaginale: come si esegue?

L'ecografia transvaginale può sostituirsi all'ecografia pelvica per via transaddominale (TAS), che dev'essere rigorosamente effettuata a vescica piena per facilitare la visualizzazione e lo studio degli organi pelvici. Al contrario, l'ecografia per via transvaginale viene effettuata preferibilmente a vescica vuota, risparmiando alla paziente questo fastidio; dall'altra parte non va certo trascurato il possibile discomfort prodotto dalla sonda e dalle eventuali operazioni manuali del medico, utilizzabili per muovere l'utero e gli altri organi pelvici. Ricordiamo a tal proposito che l'esecuzione dell'ecografia transvaginale è assai simile ad una visita ginecologica; la paziente, si trova infatti distesa supina su un lettino in posizione genecologica. La sonda, coperta da una specie di profilattico cosparso di un lubrificante sterile, viene quindi inserita con delicatezza nella vagina. Generalmente non è richiesta alcuna preparazione particolare nei giorni che precedono l'indagine ecografica; tutta la documentazione relativa ad eventuali esami precedentemente effettuati, dev'essere portata in ambulatorio al momento dell'effettuazione dell'ecografia, che può essere eseguita in qualsiasi fase del ciclo mestruale.

L'approccio transvaginale per l'indagine degli organi pelvici permette di ricavare immagini più precise e dettagliate dallo studio anatomico della regione, data la vicinanza della sonda alle strutture da esaminare, e vista la mancanza degli organi e dei tessuti incontrati nella via transaddominale (come appunto la vescica e lo strato adiposo, problematico nelle donne obese). In particolare, grazie all'impiego di frequenze di insonazione più elevate, l'ecografia transvaginale permette di ottenere dettagli anatomici dell'utero, delle ovaie e dell'endometrio che non possono essere riprodotte con la TAS. Spesso, comunque, ecografia transvaginale ed ecografia pelvica transaddominale vengono utilizzate congiuntamente per ottenere una visione globale dello stato di salute degli organi pelvici. L'ecografia per via transaddominale/transvescicale permette infatti una miglior visualizzazione delle strutture superficiali e distali alla vagina.

Fonte: My Personaltrainer



giovedì 18 aprile 2013

Cure e rimedi per i dolori mestruali

 

Cure e rimedi per i dolori mestruali
 

Diagnosi

La diagnosi di dismenorrea è sostanzialmente clinica; a tale scopo il medico compie innanzitutto un'accurata anamnesi circa le caratteristiche del dolore mestruale, la sua ciclicità e irradiazione, ma anche l'età di insorgenza del menarca, l'assunzione di determinati farmaci o integratori, l'aspetto delle perdite vaginali, il mezzo contraccettivo utilizzato, la regolarità dei cicli e la presenza o meno di disturbi associati. La visita medica generale può quindi indirizzare la paziente verso un esame ginecologico accurato, in modo da indagare eventuali cause di dolori mestruali secondari. Tra le tecniche diagnostiche di comune utilizzo rientrano l'ecografia pelvica, la tomografia computerizzata, la risonanza magnetica (tutti esami indolore e non invasivi), l'isteroscopia (inserimento di un piccolo tubicino nella vagina, che viene fatto risalire fino all'utero per controllare visivamente lo stato di salute dell'organo tramite una microtelecamera) e la laparoscopia (la microcamera collocata nel microcatetere accede alle aree da controllare mediante una piccola incisione in prossimità dell'ombelico).

Cura e trattamento


In presenza di dismenorrea primaria, i dolori mestruali vengono trattati essenzialmente in due modi. Il primo si basa sull'utilizzo di farmaci antinfiammatori non steroidei, particolarmente utili per attenuare la sintomatologia dolorosa; la loro azione farmacologica, tra l'altro, diminuisce la concentrazione locale di prostaglandine attraverso il blocco della ciclossigenasi. La terapia viene normalmente iniziata il giorno stesso delle mestruazioni o meglio, nel caso sia possibile stabilire il loro arrivo, già in quello precedente, quindi continuata per le successive 48-72 ore. I princìpi attivi di più comune impiego sono l'ibuprofene, il naproxene e l'acido meclofenamico, tutti controindicati in presenza di ulcera peptica.
Nel caso non vi siano controindicazioni all'uso della pillola anticoncezionale, questa si rivela spesso efficace nel ridurre la severità dei crampi mestruali, grazie alla capacità di inibire l'ovulazione e diminuire la contrattilità uterina.
In presenza di dismenorrea secondaria occorre ovviamente trattare la patologia organica di base; ad esempio, in presenza di endometriosi o fibroidi si procede con l'eliminazione del tessuto anomalo tramite interventi di chirurgia mini-invasiva, come la stessa laparoscopia. In questi casi, la somministrazione di FANS è normalmente priva di efficacia.

Altri rimedi per i dolori mestruali

Per molte donne il calore rappresenta un validissimo aiuto contro i dolori mestruali; un bagno caldo od una borsa d'acqua calda sull'addome sono tra i rimedi casalinghi più diffusi. Altri trattamenti non farmacologici comprendono massaggi circolari e delicati al basso ventre, esercizi di allungamento muscolare, tecniche di yoga e meditazione, TENS, agopuntura e psicoterapia. Gli integratori più popolari contro i dolori mestruali sono quelli di magnesio, omega-3, vitamina E, zinco e vitamina B1. La carenza di omega-3, unitamente agli eccessi di omega-6 (tipici delle nazioni industrializzate per il ridotto consumo di pesce e l'elevato apporto di oli vegetali), favorisce la produzione di prostaglandine ed altre sostanze ad azione pro-infiammatoria; per questo motivo, aldilà dell'eventuale integrazione con EPA e DHA (omega-tre), in presenza di dolori mestruali può essere d'aiuto consumare maggiori quantità di salmone, pesce azzurro ed olio di semi di lino. Tra i rimedi erboristici indicati in presenza di dismenorrea ricordiamo l'Angelica sinensis (Dong Quai), la potentilla Anserina (Argentina) e la Cimicifuga racemosa. 
 
Fonte: My personaltrainer



venerdì 5 aprile 2013

Svago: delizie senza zucchero

Plum cake arance rosse

 Sommario

Dosi per10 Porzioni
Preparazione
20 minuti
Cottura
30 minuti
Tempo totale
50 minuti
CostoBasso
DifficoltàFacile         

Ingredienti

220 Grammi di Farina
250 Grammi di yogurt magro
2 Uova
50 Millilitri di olio di oliva extravergine
20 Grammi di Lievito in polvere
60 Gocce di dolcificante liquido
4 Arance rosse di Sicilia
 
Preparazione: 

Spremete tre arance rosse, conservate la polpa e bevete la buonissima e sana aranciata…
Tagliate la quarta arancia a fette finissime (1), da tagliare a loro volta a metà.
Mescolate allo yogurt, le uova (2), poi l’olio d’oliva mescolando bene e incorporandolo al composto (3).

  

Aggiungete la polpa delle arance e il dolcificante liquido (4). Intanto mescolate farina e lievito in polvere, che, setacciati, andranno incorporati al composto poco per volta (5). Si otterrà un composto morbido, gli unici grumi visibili dovranno essere di polpa d’arancia (6).

  

Riempite lo stampo con il composto e, con le fettine di arancia, decorate la superficie del plum cake (7).
Infornate a 180° per 40 minuti. Non aprite il forno durante la cottura! Togliete dallo stampo soltanto quando sarà raffreddato (8).

 
 
 Fonte:Dolci.it